Favorire la cooperazione... Due importanti strategie
Il business raramente si ferma per prendere un attimo di respiro e quando avviene un cambiamento, spesso lo fa alla velocità della luce e mettendo in campo sfide inaspettate. Un’improvvisa acquisizione può significare che il concorrente di oggi diventi un collega di domani. Un cambiamento nel business model può comportare la rivalutazione di un rivale di vecchia data in forte crescita, che diventerebbe così il partner perfetto per una joint venture. La ristrutturazione apparentemente “semplice e lineare” di un’azienda può portare alla fusione di dipartimenti che in precedenza non vedevano le cose nello stesso modo. Matrimoni come questi possono essere sfidanti nella maggior parte dei casi. Ancor di più, se coloro che sono coinvolti nel cambiamento erano in precedenza occupati a compiere grandi sforzi per differenziarsi da un avversario che ora trovano nella veste di associato.
Allora, quando ha luogo un matrimonio tra avversari, cosa si può fare per incoraggiare le persone ad accettare i propri ex rivali come nuovi membri della famiglia? E come convincerli a collaborare con nuovi colleghi, a lavorare cooperando e mettendo in atto sforzi comuni?
Una potenziale risposta proviene da un altro contesto famoso per la presenza di una fiera rivalità – i gruppi di tifosi sportivi.
La voglia di primeggiare e la competitività sono assolutamente tipiche dello sport. E’ un atteggiamento che la maggior parte dei fan dimostra con estrema fierezza e intensità e riserva alla propria lista di “nemici storici”. Pensa alla competizione tra Yankees e Red Sox. Ai Celtic e ai Laker. Ai Chicago Bear e ai Green Bay Packer. L’intensità può essere tale che risulta difficile immaginare un modo in cui rivali del genere possano avere voglia di collaborare in un qualunque progetto. Ma una splendida serie di studi realizzati dallo psicologo Britannico Mark Levine suggerisce che, anche nei casi più estremi, ci sono alcuni fattori che tendono a legarci piuttosto che dividerci.
Levine domandò per prima cosa ad un gruppo di appassionati di calcio inglese, che erano tifosi convintissimi del Manchester United, di completare un questionario in cui spiegavano cosa piacesse loro della propria squadra. Dopo aver scritto le risposte, venne loro richiesto di fare due passi per recarsi presso un altro edificio del campus dell’Università dove prendere parte alla fase successiva dello studio. Durante il tragitto verso l’edificio, i tifosi del Manchester United avrebbero incrociato una persona che faceva jogging (che era di fatto d’accordo e coinvolta nello svolgimento della ricerca) che inciampava e si faceva male (per finta). Qualche volta il corridore ferito vestiva una maglia bianca, mentre in altri casi indossava una divisa di football del Manchester United.
C’era una terza possibilità, la persona avrebbe fatto jogging indossando (piuttosto coraggiosamente a mio parere) la maglia del più ostile rivale del Manchester United, cioè il Liverpool Football Club.
Alcuni osservatori, posizionati strategicamente e con i blocchi per gli appunti alla mano, stavano sul posto a contare quanti tifosi del Manchester United si fermavano e prestavano aiuto.
Ne risulta che, se stai andando a fare una corsa e sei così sfortunato da farti male, la maglia che indossi nel momento dell’infortunio potrebbe avere un grande impatto sul fatto che tu riceva o meno l’aiuto di qualcuno.
Nello studio, circa un terzo dei tifosi del Manchester United si arrestò per soccorrere la persona che indossava la maglietta semplicemente bianca.
Come potresti immaginare poi, quando videro che il corridore in difficoltà era tifoso della stessa squadra e indossava la maglia del Manchester United, una maggioranza schiacciante prestò aiuto.
Ma cosa accadde quanto il corridore vestiva la maglia del club rivale, il Liverpool? Senza troppa sorpresa, davvero pochi tifosi del Manchester United si fermarono ad aiutare; fornendo una forte evidenza della tendenza che hanno le persone ad aiutare soprattutto coloro che sono visti come appartenenti al loro gruppo “dei pari”.
Tuttavia, fortunatamente, le persone non sono solitamente così tanto limitate da non poter essere convinte a essere più disponibili con coloro che inizialmente vedono come estranei al loro ambiente.
Quando lo studio è stato ripetuto ed è stato chiesto inizialmente ai tifosi del Manchester United cosa piacesse loro dell’essere appassionato di calcio piuttosto che soltanto della propria squadra, questi si sono dimostrati due volte più propensi ad aiutare la persona che indossava la maglia della squadra rivale.
Quindi qui la lezione sembra essere che, quando c’è bisogno di incoraggiare cooperazione e senso di partnership, focalizzarsi su traguardi e obiettivi “di più ampio respiro” diventa importante. Ne risulta che, ai manager e ai leader che vogliano intensificare l’atmosfera di collaborazione e supporto all’interno dei propri team si consiglia di dedicare del tempo extra per concentrare l’attenzione sulle cose che accomunano le loro squadre di professionisti. Su quello che unisce, piuttosto che su ciò che potrebbe dividere.
Ma, sebbene non ci sia dubbio nel riscontrare il desiderio forte che le persone hanno di sentirsi affiliate e appartenere ad un gruppo, le persone vogliono anche agire in modi che segnalino la loro individualità. Tipicamente noi vogliamo “inserirci” e “distinguerci” allo stesso tempo.
E allora c’è un modo per noi per massimizzare l’impatto positivo delle somiglianze e contemporaneamente comunicare la nostra essenza di individuo? Si. Adam Grant, professore presso la Wharton School of Business e autore dell’acclamato bestseller Give and Take, suggerisce una soluzione alternativa che richiede un semplice cambiamento nel tipo di comunanza su cui vale la pena di concentrare l’attenzione.
Invece di chiedere alle persone di focalizzarsi sulle somiglianze che li avvicinano a nuovi colleghi, nuovi team e nuovi membri del dipartimento che sono comuni alla maggior parte degli interessati, lui consiglia al contrario di identificare e sottolineare le comunanze che siano non comuni. Che significa, le caratteristiche che hanno in comune con un nuovo collega ma che sono rare per altri gruppi esterni. Identificare queste somiglianze non comuni, specialmente all’inizio del processo di costruzione della relazione, potenzialmente soddisfa il desiderio delle persone contemporaneamente sia di sentirsi inseriti che di distinguersi (in questo caso da altri gruppi con cui si confrontano).
Che si tratti della riorganizzazione di un semplice dipartimento o della fusione di due giganti del settore, serve tempo perché la polvere del cambiamento si depositi. Sembra che incoraggiare i membri dei team appena formati a cercare attivamente esempi di “comunanze non comuni”, anche se piccole, possa dimostrarsi un’importante attività, che velocizza piuttosto che rallentare la cooperazione, la collaborazione e la partnership.